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Repubblica Serenissima

Dose

 I TRIONFI DUCALI E GLI ALTRI SIMBOLI DEL POTERE

 

introduzione.

i sette Trionfi Ducali.

      il cero bianco.

      il sigillo di piombo.

      la spada.

      la vera d'oro.

      l'ombrello.

      i vessilli trionfali.

      le trombe d'argento.

gli altri simboli del potere.

      il "Corno ducale" ovvero la Berretta.

      la "Zogia" ovvero la Pubblica Corona.

      l'anello.

      il faldistorio (tronetto dogale) e il cuscino d'oro.

      le corone del Regno di Cipro e di Candia.

 

Introduzione.

Il predominio praticamente assoluto sul mare Adriatico, dai veneziani significativamente chiamato Golfo di Venezia, conquistato nell'anno 1000 dal Dose Pietro Orseolo II, fu l’occasione propizia che si offrì alla Repubblica per poter vantare la propria potenza militare, unendola ad una non comune abilità dei suoi governanti nel maneggiare con grande saggezza, all'interno del più ampio contesto europeo, delicatissimi problemi sia di natura politica che diplomatica.

Fu infatti proprio grazie all’azione dei suoi esperti ambasciatori se, nel corso della seconda metà del XII secolo, inserendosi con grande abilità nelle sanguinose lotte tra il Papato e l’Impero Germanico, Venezia riuscì a dirimere con successo alcune annose controversie, contribuendo da indiscussa protagonista a fissare i nuovi equilibri politici tra il Papa Alessandro III e l’imperatore Federico Barbarossa.

 

I sette Trionfi Ducali.

In cambio del loro contributo, i veneziani non chiesero di essere ripagati con somme di denaro, né con concessioni di terre; piuttosto, come era la loro intima e più vera aspirazione, chiesero l'assegnazione di quei formali riconoscimenti di potere e di prestigio, che in seguito avrebbero potuto far valere agli occhi dei contemporanei.

Questi doni, i più importanti dei quali furono ottenuti dal Papa, erano noti come Trionfi ducali, e più praticamente consistevano nell'autorizzazione ufficiale a poter utilizzare gli espliciti simboli del potere autonomo, facoltà che era stretto appannaggio solo dei Grandi del tempo.

Conclusa la famosa pace del 1177 tra il Papa e l'Imperatore, celebrata sul sagrato della Basilica di San Marco, furono dati in dono al Dose Sebastiano Ziani, grande artefice ed accorto regista dell'evento, sette simboli all'epoca particolarmente ambiti, con il permesso di poterli esibire in ogni futura manifestazione o cerimonia pubblica:

  • il cero bianco;

  • il sigillo di piombo;

  • la spada;

  • la vera d'oro

  • l’ombrello;

  • gli otto vessilli;

  • le trombe d’argento.

 

Il cero bianco.

Per ringraziarlo della sua assistenza nelle trattative per l’atto di pace con il Barbarossa, Papa Alessandro III concesse al Dose Sebastiano Ziani il privilegio di farsi precedere nelle cerimonie pubbliche da un cero bianco, quale segno visibile di onore e dell’amore del Papa.

Il cero, portato dal cappellano del Dose, originariamente era simbolo di penitenza, ma venne presto trasformato in insegna d’onore, di privilegio e fedeltà. In seguito divenne un accessorio inseparabile dal Dose stesso, tanto che se per qualche motivo la suprema carica non vi partecipava, anche il cero era escluso dalla processione.

 

Il sigillo di piombo.

Secondo la tradizione, il Dose Ziani si stava preparando a sigillare i documenti di presentazione dei messi pontifici, in partenza verso la sede dell’imperatore a Pavia, utilizzando un normale sigillo di cera. Di fronte a ciò, il Papa intervenne risolutamente ed impedì di proseguire, concedendo sull'istante che le lettere venissero autenticate con un sigillo di piombo, conforme l’uso della Corte Vaticana e segno di alto privilegio.

Da quel momento dunque il ducato veneziano cessò di essere uniformato alla Cancelleria di un qualsiasi altro Comune, ma venne innalzato alle procedure utilizzate in quel tempo dal Papato, dagli Imperatori Bizantini e dai Principi normanni. Con la concessione del sigillo di piombo la sovranità politica della Repubblica veniva formalmente riconosciuta e per questo posta al di sopra degli altri Comuni.

 

La spada.

Secondo una versione certamente mitizzata, da Pavia il Barbarossa avrebbe inizialmente intimato alla Serenissima la consegna del Papa. Venezia, naturalmente, rifiutò e nello scontro armato che seguì tra i due eserciti, il figlio del Barbarossa, il principe Ottone, venne tratto prigioniero dai veneziani. Dopo questo episodio, prima della partenza per Roma, il Papa avrebbe consegnato al Dose Ziani una spada, simbolo della Giustizia della causa. L’arma, che aveva la particolarità di avere la lama ad un solo taglio, significava che il Dose ed i suoi successori sarebbero da allora stati considerati veri figli della Madre Chiesa, poiché non avevano esitato a difenderla.

Altra versione vuole che prima del X secolo il Dose, che rappresentava il governo di Costantinopoli nelle terre venete, aveva il titolo bizantino di Spatarius e successivamente di Protospatarius e la spada serviva quale insegna visiva del titolo. Successivamente però, con il mutare della carica da Dux a Dose, verso la fine del XII secolo anche la spada, da emblema esclusivamente ducale, mutò gradatamente il proprio significato fino ad assumere il simbolo della Giustizia della Repubblica.

Essa veniva rappresentata generalmente da una figura femminile che reggeva nelle mani una bilancia ed una spada e, come conferma il diarista Marin Sanudo (XVIII, pag. 109), il simbolo era tanto amato dai veneziani da essere secondo solo al leone di San Marco.

Divenuta nel corso del tardo medioevo la generica insegna delle magistrature giudiziarie, durante le pubbliche processioni  la spada era portata da un patrizio che già avesse sostenuto qualche Reggimento; se questi non era disponibile, lo sostituiva uno dei giudici della Curia del Proprio, oppure dal Consigliere Ducale più anziano;  se anch’essi erano per qualche motivo assenti, allora la spada veniva esclusa dalla partecipazione al corteo.

 

La vera d’oro.

La cronaca della vittoria riportata dai veneziani sulla flotta imperiale, considerata una leggenda, ma ricordata come autentica nelle pitture di Palazzo Ducale, fu abilmente introdotta all'unico scopo di consegnare definitivamente al mito il ruolo avuto dal giovane ducato dei veneziani in occasione dell'opera di mediazione per la pace tra Papato e Impero.

Quale dimostrazione di grande riconoscenza, il Papa volle donare a Venezia una vera d’oro, oggetto che non deve mai essere confuso con l'anello, perché assieme alla consegna della vera il Pontefice riconobbe alla Repubblica anche il diritto di celebrare ogni anno lo sposalizio con il mare, sancendo ufficialmente la supremazia sul mare Adriatico, "sottoposto alla città, come la sposa allo sposo".

Al di là della retorica, il punto politico era rappresentato dal fatto che dalla semplice Benedictio (benedizione) attuata per primo dal Dose Pietro Orseolo II, si passava ad una vera e propria Desponsatio (sponsale), dove infatti la celebre formula proclamata per primo dal Dose Ziani recitava: "desponsamus te mare in signum veri perpetuique dominii" (noi ti sposiamo o mare in segno di vero e perpetuo dominio), che pertanto sanciva i legittimi diritti di Venezia sulle rotte e sulle terre bagnate dal mare Adriatico.

 

L’ombrello.

Narrano ancora le cronache che, conclusa alfine la pace, il Papa e l’Imperatore, accompagnati dal Dose, si imbarcarono tutti assieme a Venezia per raggiungere Ancona via mare, per poi da lì proseguire il loro viaggio verso Roma. Giunti nella città adriatica i due Grandi furono accolti dalle autorità cittadine con due ombrelli, ma il Papa invitò il suo seguito a procurarne anche un terzo, del quale fece dono al Dose Ziani, che li accompagnava.

L’attribuzione di questo ulteriore privilegio rendeva da questo momento il Dose del tutto simile sia ad un Re consacrato che al Papa stesso; infatti sino a quel giorno, solo il Pontefice e l’Imperatore potevano ostentare baldacchini ed ombrelli cerimoniali nelle apparizioni pubbliche.

 

I vessilli trionfali.

Il primo Vexillum triumphale (vessillo trionfale) sventolò nell’anno 1000 nelle mani del Dose Pietro Orseolo II, ricevendolo dalle mani del vescovo Domenico; il secondo vessillo fu donato dal Patriarca di Grado quale simbolo di vittoria, e riportava l’immagine di Sant’Ermagora. In generale i vessilli, tutti ornati del leone alato, simbolo di San Marco, nella liturgia delle feste significavano il trionfo dei Santi Patroni che vi erano effigiati.

Anche in questo caso, poco prima di fare il suo rientro a Roma, il Papa volle donare al Dose le quattro coppie di vessilli che gli erano stati inviati incontro per accoglierlo, ciò come ulteriore segno di grande onore. Da allora, portati dai Comandadori del Dose nelle pubbliche processioni ed anche a bordo del Bucintoro. La sequenza dei colori in cui i vessilli sfilavano nei cortei veniva determinata, per ogni manifestazione, dalla contingente situazione politica e militare della Repubblica:

  • Bianco, che significava Pace;

  • Rosso, che significava Guerra;

  • Turchino, (Azzurro scuro), che significava alleanza in una Lega;

  • Pavonazzo, (Viola), che significava Tregua.

 

Le trombe d’argento.

L’accoglienza fatta al suono di trombe d’argento era segno di onore ad una dignità regale; il Papa, giunto a Roma, donò al Dose le trombe con le quali egli era stato accolto nella sua città, volendo anche confermare per iscritto, a scanso di equivoci, anche tutti i privilegi e le indulgenze precedentemente concessi.

Maturalmente, per i pratici veneziani fu di grande importanza che l’accoglienza avuta a Roma dal Dose Ziani fosse uguale in tutto e per tutto a quella che normalmente si riservava, per condizioni e prestigio, ai Re consacrati.

La Repubblica però adottò ufficialmente l’impiego delle trombe d’argento nelle cerimonie pubbliche con qualche ritardo rispetto agli altri Trionfi; solo nel 1224 si ritrova nella Promissione Ducale giurata dal Dose Jacopo Tiepolo, la conferma del loro inserimento nel corteo dogale per l'onore della Chiesa di San Marco. Dunque solo dopo l'avvenuta conquista di Costantinopoli, e con essa, la definitiva conferma della raggiunta autonomia politica del dogado.

E' curioso notare infine che, nonostante lo scopo pubblico ed unicamente nel caso di questo Trionfo, competeva al Dose sostenere le spese per i trombettieri. L'entità dell'esborso venne fissata dal Dose Tiepolo in nove pezzi d'argento per tre trombe, poi sedici pezzi per quattro strumenti fino al Dose Pietro Gradenigo (1289) che a sua volta stabilì ventiquattro pezzi per sei trombe, con il Dose Marino Zorzi i pezzi d'argento divennero trenta, ed in seguito il numero degli strumenti non più definito con chiarezza ma variarono in base al Serenissimo.

Vivente Francesco Dandolo (1328) fu imposto al Dose l'obbligo di non poterle mai dare in pegno e quindi di averle accanto a sé al più tardi sei mesi dopo la sua nomina.

Agli inizi le trombe dovevano avere il modesto valore di 60 lire di grossi, per finire con il Dose Marco Barbarigo quando per la loro fattura e per la qualità del metallo utilizzato valevano non meno di 3.000 ducati.

 


 

Gli altri simboli del potere.

Oltre ai Trionfi, vi erano anche altri importanti simboli del potere che erano portati in corteo, od indossati direttamente dal Dose durante le solenni cerimonie di Stato; non essendo questi catalogabili come doni, ma piuttosto oggetti di stretta pertinenza della sua carica.

Assieme ai Trionfi ducali, si aggiunsero anche altri simboli, certo non meno importanti, che consacravano la maestà della carica dogale in quanto rappresentante stessa dello Stato; mentre altri ancora si aggiunsero ad esaltare ulteriormente lo stretto connubio che esisteva tra la figura del Dose e la maestà della Repubblica:

  • il "Corno ducale" ovvero la Berretta;

  • la "Zogia", ovvero la Pubblica Corona;

  • l’anello;

  • il faldistorio (ossia il tronetto ducale);

  • il cuscino d’oro;

  • le Corone dei Regni di Cipro e di Candia.

 

Il "Corno ducale" ovvero la Berretta.

Con il nome di Corno ducale, o talvolta con quello di Berretta, era indicato sia il copricapo personale del Dose, che la pubblica Corona, anche se per quest’ultima si preferiva utilizzare il termine di Zogia (in veneziano gioia, gioiello).

La derivazione più prossima dell’usanza di porre sulla testa la Berretta è da ricercarsi forse nel copricapo conosciuto come skiadion, portato da alcuni dignatari bizantini come il protospatarios, oppure dal kamelavkion berretto imperiale che si iniziò ad usare a Bisanzio a partire dall’inizio del IX secolo.

L'originaria Berretta mutò nella caratteristica forma del Corno ducale almeno fin dai tempi del Dose Jacopo Tiepolo (1229-1249), ma con tutta probabilità già da parecchio tempo il Capo dello Stato utilizzava due copricapo: uno più semplice, a forma di corno, ed un altro più ricco, della stessa forma ma adornato di un cerchio aureo e di pietre preziose per le grandi festività. Dal 1367 ogni qual volta egli comparisse in pubblico, venne fatto obbligo al Dose di indossare sempre il Corno ducale, emblema eloquente della sua preminente dignità.

Non poche furono le modifiche apportate con il tempo alla Berretta, tra le più rilevanti si ricorda quella apportata dal Dose Lorenzo Celsi (1361-1365) al quale pare risalga l’usanza di inserire nella parte anteriore una preziosa croce gemmata. Tale modifica fu dovuta al fatto che, essendo suo padre ancora in vita al momento dell’elezione, l’anziano genitore si sentisse in obbligo di abbassare il capo, se non mai davanti al figlio, almeno innanzi al simbolo della croce posta sul corno.

Un’altra modifica degna di nota, fu senza dubbio quella introdotta pare dal Dose Nicolò Marcello (1473-1474) che a proprie spese fece foderare il Corno ducale con stoffa d’oro e lo adornò riccamente con molte gioie.

Va osservato che il Dose possedeva per suo uso uno svariato numero di Corni ducali, confezionati con stoffa di diverso colore affinché si intonassero con gli abiti, in più egli doveva provvedere personalmente, ciò almeno fino al 1329, alle spese necessarie per la Berretta da usarsi nelle pubbliche cerimonie, che comunque restava di sua privata proprietà.

Sotto il corno, a contatto con i capelli, il Dose portava il camauro, una specie di cuffietta bianca di filatura finissima, allacciato o slacciato dal mento a seconda delle epoche, che egli però aveva il privilegio di poter continuare ad indossare anche durante l’Elevazione nella Santa Messa.

 

La "Zogia" ovvero la pubblica Corona.

Sull’origine della Corona si hanno notizie piuttosto scarne. Piace normalmente accarezzare l’ipotesi che già a partire dal primo e leggendario Dose, Paoluccio Anafesto (697) venisse posto in uso un diadema quale segno distintivo della sovranità.

Secondo altre opinioni, la Corona sarebbe stata donata da papa Benedetto III alla badessa Agostina Morosini, delle monache del convento di San Zaccaria, che a sua volta nell’864 l’avrebbe offerta al Dose Piero Tradonico. Questa sua presunta origine pontificia, se in un primo momento fece gioco ai veneziani perchè di fatto elevò il Dose al rango dell’imperatore, che appunto veniva incoronato dal papa, nei secoli successivi, consolidato il potere della Repubblica, la Corona venne posta sul capo del neo-eletto Dose soltanto nel giorno dell’investitura.

Il primissimo simbolo della regalità ducale viene descritto nel "Liber de obsidione Anconae" di Boncompagno da Signa, compilato nel 1173, come un semplice cerchio d’oro, forse sobriamente gemmato, secondo l'uso tipico del dignatario orientale. Questa cronaca costituisce, al tempo attuale, il primo documento in cui si accenna alla Corona usata dal Dose di Venezia.

Anche se successivamente essa riaffiora, di quando in quando, in alcuni documenti pubblici, tuttavia nelle Promissioni ducali non si fa mai esplicita menzione del Biretum (berretto) o della Corona fino alla compilazione del testo sul quale giurò Francesco Dandolo (1329).

Assurto a simbolo della sovranità della Repubblica, inizialmente il dignitoso confezionamento della Corona era un onere che gravava direttamente sul patrimonio del Dose neo-eletto, finché il Mazor Consejo con la Parte presa il 2 gennaio 1328 stabilì che la Zogia venisse ricondotta sotto  la completa proprietà dello Stato, decretando altresì che per il suo abbellimento venisse stabilita di volta in volta un tetto di spesa massimo.

Con l'occasione venne anche decretato che la Zogia fosse da allora conservata a cura dell'ufficio dei Procuratori de San Marco de supra, i quali dovevano farla pervenire al Dose per tutte quelle cerimonie pubbliche nelle quali fosse prescritto che la stessa sfilasse, portata sopra un cuscino, per rappresentare la sovranità dello Stato.

Nei lunghi secoli di vita della Repubblica, la Zogia visse almeno quattro fasi di trasformazione, l’ultima fu quella del 1557, sotto il dogado di Lorenzo Priuli, quando venne stabilito con il decreto del Consejo dei Diese il suo completo rifacimento. Dopo questo intervento la Zogia non subirà più alcuna variazione, se non per brevi interventi di manutenzione straordinaria nel corso del 1790 e nel 1794.

Come già detto, portata dal decano degli scudieri ducali, la Zogia accompagnava sempre il Dose nelle sue "andate", cioè nelle visite ufficiali che egli annualmente compiva, alcune delle quali per antichissima consuetudine: la processione di Pasqua, quella del Corpus Domini, la visita alla Salute, al Redentore, al monastero di San Zaccaria, alla chiesa di Santa Maria Formosa, alla chiesa di Santa Giustina, alla chiesa di San Vio.

Dopo ogni uso, essa veniva riposta con ogni cura fra il Tesoro di San Marco, dove era custodita nell’armaro de mezo. Previa licenza dei Procuratori di San Marco de supra, con grande orgoglio essa veniva mostrata ai visitatori più ragguardevoli che giungevano in città.

 

L’anello.

Dal momento del suo insediamento il Dose portava al dito un anello d’oro, che recava una complessa incisione formata da San Marco che gli consegnava lo stendardo mentre egli se ne stava inginocchiato, dallo stemma della sua famiglia e dalla scritta Voluntas Ducis (volontà del Dose).

L'anello veniva spezzato alla morte del Principe, ed era di stretta competenza dei magistrati alle Rason Vecie la predisposizione del nuovo anello, che veniva fabbricato in Zecca, congiuntamente al conio delle prime monete recanti l’effigie del nuovo eletto.

 

Il faldistorio (tronetto ducale) e il cuscino d'oro.

Entrambi portati dagli scudieri del Dose.

 

Le corone del Regno di Cipro e del Regno di Candia.

Simboli del potere ducale, tangibili segni della grandezza dello Stato, erano le Corone dei Regni che vennero aggregati alla Repubblica di Venezia: quello di Cipro e quello di Candia.

Fabbricate nel corso del secolo XVI e custodite anch’esse fra il Tesoro di San Marco, non vennero mai mai indossate nè portate in processione da alcun Dose. La loro stessa esistenza però giustificava e rafforzava anche visivamente i diritti dello Stato sulle due grandi isole del Mediterraneo.

La questione era di grande importanza, tanto che in piazza San Marco, sui tre pili posti in faccia alla Basilica di San Marco sventolarono fino alla caduta della Repubblica il gonfalone di San Marco e ai lati gli stendardi ufficiali dei due Regni.

 


 

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