Premessa.
Prima
di analizzare le procedure attraverso
le quali il Senato approvava o respingeva una
Parte, oppure eleggeva o bocciava un
candidato, è necessario scendere nel dettaglio
di alcune tra le più importanti garanzie
procedurali le quali, severamente e
continuamente applicate, contribuirono non
poco alla plurisecolare saldezza di questa,
come delle altre, istituzioni politiche della
Repubblica.
L’istituto della “contumacia”.
Fin
dal sua fondazione e poi fino alla fine della
Repubblica, tutti i membri del Senato una
volta concluso il loro mandato risultavano
essere immediatamente rieleggibili, essendo
esclusa per questo importante organo dello
Stato l'applicazione della contumacia,
norma che impediva ad un qualsiasi magistrato
di essere rieletto allo stesso ufficio, se non
trascorso un periodo di tempo uguale alla
durata del mandato che egli aveva appena
concluso.
L'esonero concesso ai membri del Senato
(inizialmente riconosciuto anche ai membri
della Quarantia, fino a quando non
divenne al Criminal), fu determinato
dal fatto che, giustamente, non parve
confacente ai pubblici interessi dover
rinunciare a disporre di una solida componente
tecnica e politica, formata appunto da
autorevoli e competenti senatori, che qualora
sottoposti ad allontanamento avrebbero privato
la Repubblica delle preziose competenze
maturate a stretto contatto con i più delicati
affari di governo, rendendo difficoltosa la
continuità all'azione politica.
Anche se immediatamente rieleggibili, tutti i
senatori comunque scadevano ogni anno di
carica per essere sottoposti alle rituali
elezioni, anche se, per consuetudine, il
senatore che risultava eletto una prima volta
assai difficilmente non vi era rieletto, a
meno che non si fosse macchiato di qualche
colpa grave o conducesse una vita troppo
sfarzosa che urtasse il comune senso di
eguaglianza tra patrizi.
Quasi sicuramente però tale benefica esenzione
contribuì in maniera non trascurabile a far sì
che lentamente ma inesorabilmente il Senato si
trasformasse in un feudo politico riservato
alla ristretta cerchia costituita dalle grandi
famiglie aristocratiche più ricche ed
influenti di Venezia.
L’abbondanza di risorse finanziarie
costituiva, infatti, una formidabile rampa di
lancio verso il potere: in seguito
all’elezione, per poter mantenere alto il
livello di decoro che il prestigio della
carica imponeva, il senatore doveva far
ricorso esclusivamente alle proprie
possibilità economiche, visto che la
Repubblica, per l'espletamento della carica,
non contribuiva e non contribuì mai con alcuna
forma di stipendio.
Il sostanziale disinteresse dello Stato
riguardo qualunque forma di sostegno pubblico
per l’attività politica è stato più volte
additato come un vero e proprio neo della
costituzione veneziana, che da questo punto di
vista concepiva il partecipare alla vita
pubblica più come un dovere che come un
diritto, rivelandosi tale assunto una grave
violazione nei riguardi della conclamata
eguaglianza che doveva esistere fra tutti i
nobilomeni veneziani.
Fu l’ampiezza del patrimonio che sostituì
lentamente la vera capacità del singolo e
questa degenerazione, lavorando sotto traccia
nei secoli, fece sì che verso la fine della
sua storia la classe nobiliare di Venezia si
fosse ormai solidamente stratificata in tre
caste: la prima era quella detta della
nobiltà senatoria, alla quale apparteneva
le famiglie più ricche, le sole che potevano
dirsi pronte a sostenere a lungo un proprio
consanguineo eletto in Senato; la seconda era
chiamata nobiltà giudiziaria e vi
facevano parte quelle famiglie patrizie né
ricche ma nemmeno ridotte in miseria ed i cui
membri avevano come sbocco l’elezione in
Quarantia al Civil novo (che poi con il
giro, dava accesso automatico alla
Quarantia al Civil vecio e alla
Quarantia al Criminal); infine l'ultima
categoria era detta nobiltà barnabota (barnaboti
deriva dalla contrada di San Barnaba, zona
della città dove più bassi erano gli affitti
delle case popolari), costituita dai nobili
poveri che partecipavano ai lavori del
Mazor Consejo ma senza alcuna speranza, né
disponibilità personale, di essere eletti ad
alcuna carica importante, essendo del tutto
privi di grossi patrimoni e quindi destinati
al massimo ad incarichi marginali.
Gli effetti nefasti cui portava la
stratificazione basata sul censo non erano
però sfuggiti ai più, e forse è bene qui
ricordare una Parte approvata verso la
fine del XVIII secolo (quindi in periodo di
grande decadenza dell'impegno politico) in
Mazor Consejo, con cui venne introdotto il
concetto di limitare al massimo in tre anni il
periodo di appartenenza consecutiva al Senato.
Mentre la Repubblica si avviava verso la
propria misera fine, pure il patriziato
veneziano ancora non cessava d'interrogarsi
sulla necessità che il potere non finisse
raccolto entro le mani di pochi oligarchi. Ciò
testimonia come ancora fosse vivo, malgrado
tutto, l'antico orientamento egualitario della
maggioranza dei nobilomeni che, con
incredibile coerenza, ribadiva ancora la
propria fede assoluta nei principi
fondamentali dello Stato.
La
condizione di “cacciato di cappello” e di “papalista”.
Questo
termine, alquanto inconsueto, era usato a
Venezia per indicare coloro ai quali era
momentaneamente sospeso il diritto al voto, e
ricerca le sue origini nel fatto che,
anticamente e prima di introdurre l'utilizzo
del concolo (urna), il voto avveniva
gettando le ballotte dentro un largo cappello
di paglia posto ai piedi della Signoria.
Da qui, l'espressione di cacciato di
cappello restò a significare l'assoluta
impossibilità, per un membro di diritto, di
poter partecipare al voto: fosse,
indifferentemente, in occasione di elezione
che per l'approvazione di una Parte.
Più propriamente nel diritto pubblico
veneziano, questa espressione stava ad
indicare un numero variabile di votanti che
non potevano partecipare al voto risolutivo su
di una determinata materia con la quale gli
stessi si cacciassero di cappello
perché aventi interessi personali non
compatibili con l'assoluta imparzialità morale
con la quale qualsiasi preferenza doveva
essere espressa.
Questo severissimo principio, applicato
indistintamente in tutte le assemblee
politiche dello Stato, era ancora più
rigorosamente perseguito in Senato, dove tutti
coloro che risultavano cacciati di cappello
venivano raccolti e rinchiusi dentro un'altra
stanza del palazzo, dove rimanevano fino alla
fine delle operazioni di voto dalle quali
erano stati esclusi.
Con maggiore asprezza si applicava in Senato
questa norma nel caso si dovessero dibattere
materie riguardanti i rapporti tra Stato e
Chiesa: allora non solo i cacciati
individuati dovevano uscire, ma anche i loro
parenti, figli, cognati, zii e figliastri;
mentre chi ancora non fosse stato allontanato
ma sapeva di vantare interessi particolari ed
incompatibili, doveva pubblicamente
autodenunciarsi ed uscire.
Col passare del tempo la consuetudine prese ad
indicare con questo termine anche chi vantasse
dei benefici ecclesiastici, finché in questo
caso si passò ad utilizzare il termine di
papalista, il quale a sua volta fu sovente
utilizzato per indicare coloro che non
potevano votare anche quando si trattava di
materie non strettamente attinenti alla sfera
ecclesiastica.
L’imparziale applicazione di questo principio
di rigorosissima moralità pubblica faceva
spesso sorgere notevoli difficoltà di ordine
procedurale a chi restava in aula avendone
diritto, poiché capitava spesso che venisse a
mancare addirittura il numero legale per poter
validamente deliberare; la seduta si
considerava allora sospesa e veniva inoltrata
al Mazor Consejo l’autorizzazione ad
ugualmente deliberare, mentre l'argomento in
discussione veniva ripreso la riunione
seguente.
Infine, va notato che con la solita ferrea
logica, propria del patriziato veneziano, dal
Senato venivano allontanati non solo i membri
aventi diritto ma, se del caso, anche il
semplice segretario.
La
segretezza e la sincerità del voto.
L'estrema
importanza data dai veneziani a questo aspetto
dell’esercizio della sovranità, appunto la
segretezza e la sincerità del voto personale,
fa ben comprendere l'energia con la quale gli
organi preposti al suo controllo vigilavano
per impedire appunto che sui votanti potesse
essere esercitata qualsiasi forma di illecita
pressione psicologica, col fine d'influenzare
gli esiti delle votazioni.
Per ogni inosservanza e frode erano previste
pene severissime, che andavano dalla
privazione dei pubblici uffici, alla
comminazione di forti multe, per arrivare sino
alla prigione o al bando in qualche sperduta
colonia.
Il “bossolo” e la “ballotta”.
Il
bossolo, termine veneziano di
definizione dell'urna, era un contenitore
chiuso che poteva essere triplice o duplice,
ma fornito in ogni caso di un'unica apertura
dall'alto.
Esso era utilizzato nella versione triplice
quando per la votazione in corso erano ammessi
i voti de Parte (sì), i voti de Non
(no) e quelli dubii o non sinceri (una
forma d’incertezza di voto non però uguale
nella sostanza alla moderna astensione); il
bossolo era invece duplice quando la procedura
ammetteva solo il voto de Parte ed il
voto de non.
Durante le operazioni di voto, era il bossolo
che veniva portato in giro facendolo
sfilare tra i banchi dei senatori, i quali
introducevano il pugno chiuso dentro il
bossolo facendo cadere la ballotta nello
scomparto desiderato.
Le ballotte a loro volta erano confezionate in
panno di lana o stoffa, affinché nessun rumore
fosse udito all’esterno nella loro caduta
dentro l'urna, impedendo così a chiunque di
poter dare anche in questo modo indicazioni
indirette di voto. In base alle procedure
utilizzate le ballotte potevano essere di
colore bianco, nero oppure dorato.
Le
norme riguardanti il voto.
Poiché,
come visto, era il bossolo che veniva
mandato in giro, i senatori che
aspettavano al proprio seggio prima e durante
il momento del voto erano obbligati ad
osservare scrupolosamente alcune regole:
-
prima di introdurre la mano dentro al
bossolo, il senatore la doveva alzare
mostrando ai colleghi la ballotta sul palmo,
-
ogni senatore doveva votare rimanendo seduto
al proprio seggio;
-
era vietata qualsiasi dichiarazione palese
di voto e qualsiasi pubblicità elettorale;
-
era categoricamente vietato non votare;
Come di consueto, conclusa
la
votazione tutte le ballotte, distinte per
colore, sotto l'attenta sorveglianza dei
membri del Pien Collegio venivano
versate nel concolo e ricontate dai
segretari che verificavano se il numero delle
ballotte fosse uguale al numero dei votanti.
La
cognizione.
Il
patriziato veneziano reputò sempre della
massima importanza il fatto che tutte le
Parti promulgate dal Senato, fossero
sempre il frutto di un lungo e ponderato
dibattito. Si cercò sempre di evitare, per
quanto possibile, che la fretta o la
superficialità nell’esprimere il voto dessero
origine ad abusi oppure che la legge stessa
non sortisse poi i risultati sperati.
Come era disposto anche per il Mazor
Consejo, il sistema prevedeva che qualora
una Parte fosse stata reputata
fondamentale o comunque di grande interesse,
essa dovesse prima di tutto essere ben
compresa ed affinata dai senatori e per questo
motivo era disposto che la lettura del testo
avvenisse in aula almeno otto giorni prima che
l'assemblea si esprimesse con il voto.