Secondo il Gallicciolli, con
l'appellativo di stua (ossia
stufa) veniva indicata a Venezia la bottega dove un
stuer (ossia un chirurgo
di bassa levatura) curava le unghie dei piedi e tagliava i calli.
Il nome derivava probabilmente dal fatto che avendo necessità di
avere sempre a disposizione dell'acqua calda, una stufa era sempre
accesa.
Il
Romanin sostiene invece che
nelle stue si potesse prendere
un bagno caldo, poiché Alvise Molin nel suo Diario dell'ambasciata
a Costantinopoli così scrive: "nel ritorno a casa dessimo
un'occhiata ad uno dei loro bagni, che molti e frequentissimi sono
nella Turchia, fatti per lavarsi prima dell'orazioni loro, che
altro non sono che stufe in tutto simili alle nostre".
Che
in effetti gli stueri si
occupassero di altro, oltre che di tagliare unghie e calli, lo si
può desumere dalla parte del 3 luglio 1615, dove si parla
delle stue come luoghi dove "venivano
curati malati di diverse qualità di mali, e da sé stessi
gli ordinano decotti di legno, che non avendo cognitione
della complessione del patiente, per il più lo abbrugiano,
altri fanno ontioni con l'argento vivo, profumi, od altro, a gran
danno del prossimo, et anima loro, et altri, segnando da strigarie,
danno medicamenti per bocca così gagliardi che, invece di cacciar
spiriti, cacciano l'anima". L'avversione del Governo ai metodi
utilizzati da questi "apprendisti stregoni" che sottoponevano i
pazienti a cure talmente drastiche che spesso, appunto, invece di
cacciare gli "spiriti maligni", vedevano soccombere l'ammalato, è
testimoniata dalla rigidità con cui erano organizzate al tempo
della Repubblica le varie Arti legate alla medicina e alla cura.
Gli stueri erano un
colonnello dell'Arte dei Barbieri.
Vari toponimi in città riportano all'esistenza di
stue,
nel numero si dice che fosse molto rinomato il gruppo esistente
presso la Contrada San Zaninovo, come si ricava dalle seguenti
parole del Coronelli: "Molti sono gli stueri sparsi per le
contrade, ma quello di San Zaninovo porta sopra tutti il vanto".
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