organi costituzionali

Repubblica Serenissima

Inquisidori de Stato

INQUISITORI DI STATO, UN MITO SFATATO

 

un mito sfatato.

 

 

 

“... mi sono applicato con tutto il fervore a metter in regola le scritture

che erano tenute non senza confusione e con non tutto il buon ordine,

ed havendo osservato non esservi che pochi e deboli lumi della grande

e temuta autorità di questo Tribunale gravissimo,

celebrato ed ammirato da tutto il mondo ...”

 

 (Capitular delli Inquisidori de Stato - Raccolta Cicogna)

 


 

 

Inquisitori di Stato, un mito sfatato.

Qualora si abbia raggiunto questa sezione dopo aver consultato le precedenti, la speranza è che tanto scrivere sia stato almeno sufficiente a rivedere l’immagine romantica dell’oscura e fredda saletta rischiarata dalle tenui luci di ondeggianti fiammelle di candele, dove potentissimi figuri decidevano, in perfetta solitudine ed in spregio alle leggi, della vita o della morte di poveri cittadini.

I tre magistrati, arrivati all'altissimo incarico di Inquisidori dopo aver speso praticamente tutta la vita al servizio della Repubblica, ben difficilmente avrebbero potuto stringere fra loro uno scabroso accordo per commettere quelle terribili iniquità delle quali, oltretutto, scaduto il loro breve incarico, sarebbero stati chiamati a rendere stretto e minuzioso rendiconto ai loro stessi successori, quando non dagli stessi Avogadori de Comun o in Mazor Consejo.

All'interno delle assemblee politiche dello Stato era sempre riconosciuta a chiunque la discussione sull’operato degli Inquisitori, con una notevole libertà d'intervento e senza che mai nessuno, neppure il più accanito avversario di quella istituzione, ricevesse per questo delle molestie o fosse perseguitato. Naturalmente, ogni opinione era considerata lecita fino al punto in cui non sconfinasse oltre i limiti della corretta opposizione; non appena la critica scivolava verso forme di demagogia (magari anche con qualche accenno ad attaccare direttamente i titolari dell'ufficio, comportamento che non fu mai minimamente tollerato), in questo caso l’intervento degli organi competenti non si faceva certo attendere, e la severa azione moderatrice veniva portata contro chiunque, non esclusa la stessa persona del Dose.

 

A Venezia la libertà politica non venne fraintesa come una licenza concessa per attaccare le istituzioni dello Stato o peggio per svilire l'operato dei singoli magistrati che s'intendevano sempre tesi a servire gli interessi della Repubblica; la libertà di esprimere la propria opinione venne concepita come la diretta conseguenza dell'indipendenza interiore di ciascuno, il frutto di una integrità morale che si doveva riflettere su ogni atto politico esteriore. Così il Maranini.

Le leggi e le istituzioni della Repubblica ebbero il compito supremo di salvaguardare in ogni modo l'essenza di questo profondo principio di libertà collettiva e con esso preservare la perfetta integrità dell'ordine costituito, che rappresentava la base sulla quale si fondava la dottrina politica veneziana.

 


 

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