La sarìa curiosa ...

la moeca più vecia

SESTIER DE

 S. POLO

Questa curiosità,  la moeca più vecia  riguarda una pàtera che fino al 1967 stava murata sopra la porta d'entrata del campanile di S. Aponal, essendovi raffigurato un leone in moeca. Considerato il più antico leone marciano lapideo esistente in città (fatto risalire per motivi stilistici alla fine del XIII secolo), esso venne opportunamente asportato dal sito originario e ricoverato dapprima all'interno dell'attigua chiesa, per essere successivamente stabilmente accolto nelle raccolte del Civico Museo Correr.

Ad un primo sguardo, indubbiamente l'espressione del leone ricorda molto di più quella di un cagnolino pechinese, fisionomia ulteriormente accentuata dalla lingua a penzoloni, che propriamente un leone, fiero re degli animali. Nel rilievo, alle ciocche poste a raggiera sul capo, analoghe a quelle del pelo sul petto, si contrappone la realistica resa delle ali e delle forti zampe che stringono il libro chiuso, ornato di borchie e fibbie, quasi una mariegola.

A Venezia la raffigurazione del leone in moeca si ritrova, dal Rinascimento in poi, inscritto a tondi, soprattutto in rilievi strutturali, come capitelli, colonne, meteope, chiavi di volta, vere da pozzo.

Nell'iconografia tarda esso viene progressivamente spogliato di gran parte del suo carattere ferino, per assumere invece tratti sempre più marcatamente antropomorfi. Ciò avverrà specialmente al di fuori della città, dove la tipologia della belva era rappresentata con difficoltà dalle maestranze locali. Ai veneziani non sfuggirono questi grotteschi leoni, coniando per certe facce deformi e rincagnate il motto: muso da Samarco spegazà.

Infine, ancora più caricaturali che nel Cinquecento diverranno talune raffigurazioni del Sei e ancora di più del Settecento, dove il leone arriverà ad indossare il corno dogale, secondo un'iconografia consueta nelle oselle settecentesche, ma di cui, fortunatamente, non esistono esemplari scolpiti.

 

In merito, il Rizzi, (Scultura esterna a Venezia, VENEZIA, 1987, pag. 57 e segg.) afferma che due devono considerarsi i tipi principali del leone marciano: il primo seduto o in maestà e il secondo andante (o, con maggior proprietà: stante sulle tre zampe con la quarta sul libro). Il primo tipo fu sempre ed è ancora oggi detto dal popolo veneziano leon in moeca.

Da dove poi tragga ispirazione la denominazione "in moeca", il Rizzi tenta l'attribuzione sia riferendosi alla struttura rotondeggiante, che richiama il corpo del granchio, che dalla forma delle ali aperte a ventaglio, che possono ricordare le chele del popolare crostaceo.

 

Il Siega, (Il dialetto perduto, VENEZIA, 2007, pag. 256) a proposito di "moeca", così riporta:

Moeca: dal latino mollis, così è detto il granchio (Carcinus moenas) nella fase più delicata della muta del suo dermascheletro; in quelle precedenti è detto capelùo (raggomitolato) e più spesso spiàntano; in quella successiva, in muda ancora non completa, masanéta.

 

Il Boerio, (Dizionario del dialetto veneziano, VENEZIA, 1856, pag. 315) rimandando da moeca a granzo, così dice:

Per granzo intendono i pescatori una specie di granchio marino a coda corta, conosciuto da Linneo col nome Cancer Moenas. Con questo termine il vernacolo intende tanto il maschio quanto la femmina, ma più frequentemente il maschio solo, dandosi alla femmina di questa specie il nome di masanéta. Oltre al servire di cibo in alcune stagioni cangiano di scorza, ed allora si chiamano volgarmente molèche, da molegato cioè molliccio o molle.

 

Va detto infine che, per quanto ho potuto raccogliere dalla tradizione orale popolare, la definizione "leon in moeca" si deve alla posizione in cui viene comunemente ritratta la fiera, mentre tiene, al di sotto, il vangelo stretto fra le due zampe. Perchè ? La ragione sta nel fatto che quando le sue battute di caccia non vanno a buon fine, il granchio adulto si avventa sui suoi simili, divorando i granchi più giovani resi fragili dalla muta. Se capita però che la preda ancora non sia sufficientemente molle (molecà), la trattiene a sè bloccandola fra l'appendice addominale e le chele, trasportandolo con sè aspettando il momento buono per mangiarselo. Da questa posizione, assai verosimile, pare derivare appunto il "leon in moeca".

 

La cronacheta de Sior Antonio Rioba.

Me sento un poco imbarasà, parchè parlar de la molèca vol dir par nialtri venexiani anca parlar de magnar, robar, ciapar 'na fregadura e far l'amor, e tute 'ste quatro robe se pol dir usando 'na parola sola: "ciavàr".

Par primo el gransio mascio "ciava" la molèca femena, intendendo che el sia porta streta in giro co' iu; dopo la "ciava" zoè el ghe fa insieme l'amor, fecondando i vovi; par finir el sia "ciava" prima che la deventa 'na masaneta, zoè la sia magna in un bocon quando che la xe moecada (e la ciapa 'na ciavada).

Figurarse che da bocia, co' l'aqua ai zenoci, go ciapà 'na volta un gransio che soto gaveva la moléca, contento ghe l'ho mostrà a mio pare dixendo: "varda el ga el puteo!" Mio pare ga butà un ocio e se ga messo a rider, e me ga risposto: "puteo un ostia! Quea se no ti ghia stachi via, la xe ciavada!

Dopo, più da grandeto, go capìo mejo ...

 


 

 

 

CONTRADA

S. APONAL

SOTOPORTEGO

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